di René Féret con Nicolas Giraud, Lolita Chammah, Robinson Stévenin, Jacques Bonnaffé, Jenna Thiam – Francia, 2015, durata 96 min.
Anton Cechov è un giovane medico di campagna che scrive, con pseudonimo, dei racconti. Uno di questi viene letto e apprezzato dall’editore Aleksej Suvorin e dal famoso critico Dmitrji Grigorovic che lo spingono ad affrontare seriamente la scrittura. Inizialmente Anton vede nella loro offerta un modo per contribuire all’economia della numerosa famiglia a cui appartiene ma progressivamente la lettera- tura diventa la sua attività principale al punto da fargli sospendere le prestazione mediche per com- piere un’inchiesta in favore del miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti nel penitenziario dell’isola di Sachalin. René Fèret è uno di quei registi che sono apprezzati in patria ma che fanno fatica a passare la frontiera di Ventimiglia anche in tempi di libera circolazione delle opere dell’intelletto. La distribuzione italiana lo ha praticamente sempre snobbato ma finalmente ce n’è una che pone rimedio alle omissioni. Si tratta infatti di un autore che sembra avere nel proprio dna l’elemento familiare. Non solo perché ha attori che tornano ad essere regolarmente presenti nei suoi film o perché la moglie produce e monta questo film e la figlia è presente nell’importante ruolo di Anna ma anche perché le dinamiche che intercorrono tra consanguinei gli stanno particolarmente a cuore. Lo si può intuire dall’apertura del film quando, con una licenza narrativa, l’editore Suvorin e il critico Grigorovic vengono fatti arrivare a casa Cechov per incontrarlo e i fratelli, lui compreso, si presentano tutti con la stessa maschera a significare che tra loro non esistono distinzioni. Il rapporto con loro e in particolare con il fratello colpito dalla tubercolosi, malattia che successivamente condurrà anche Anton alla morte, nonché con la sorella Marjia occupa una buona parte della narrazione. Fèret ci accompagna nella vita di uno dei più importanti autori della letteratura mondiale mostrandoci con delicatezza anche le intime contraddizioni di un uomo che si sentiva più medico che scrittore ma che non poteva negare, salvo mettere in gioco una falsa modestia, il proprio talento. Ce lo mostra anche come un autore in grado di cogliere con grande profondità le sfumature dell’animo umano ma al contempo quasi incapace di innamorarsi appieno. La sua immersione nell’universo penitenziario di Sachalin diventa funzionale per far emergere il Cechov attento alla dimensione del sociale e al recupe- ro di esseri umani ormai privi di una speranza nel futuro.
Recensione di Giancarlo Zappoli